Sfogliando i due maggiori quotidiani della Sardegna, sono rimasto
colpito da due articoli. In uno si parla dell’inaugurazione di un salone dedicato
all’innovazione HI-TECH in Sardegna: “SINNOVA 2016”, ove, tra l’altro, si magnifica la scelta della Sardegna come
polo attrattivo di investimenti da parte delle multinazionali del settore,
sulla base di determinati parametri, quali la qualità della vita e il grande
capitale umano disponibile; nell’altro,
si parla della grande fuga dei sardi, specialmente giovani, verso altri paesi
europei, per mancanza di prospettive lavorative.
D’acchito si è portati a pensare ad una certa discrasia tra le due
notizie, l’una smentisce l’altra; approfondendo, però, ci si accorge che una certa
coerenza esiste. In una si parla di investimenti per la costituzione di poli
produttivi di innovazioni tecnologiche e, quindi, di potenziali prospettive
lavorative per coloro che possiedono una preparazione scientifica,
dall’altra si parla di fuga generalizzata
di giovani, soprattutto neo laureati (con indirizzi diversi ma riconducibili
nell’alveo umanistico) magari con qualche master e con qualche anno di
precariato sulle spalle, ma tutti rassegnati a sperare in un futuro all’estero,
viste le scarse attrattive che questa terra offre.
Sono passati tanti anni e siamo ancora qui a discutere sulle
giuste scelte dei percorsi formativi da intraprendere per entrare nel mondo del
lavoro. Serviranno gli indirizzi
scientifici o quelli umanistici? Giusto
per dare una risposta propenderei per un equo mix, d’altronde come può esserci scienza senza la creatività.
Il problema, però, non è questo ma cosa la scuola, nella sua
accezione più ampia, può offrire? Quale
bagaglio culturale, qualitativamente parlando, è capace di proporre? Che
capacità possiede per assistere gli studenti nei vari percorsi intrapresi? Cosa
offre ai suoi insegnanti per spronarli a progredire nel loro lavoro e di
conseguenza a stimolare l’apprendimento ai propri studenti?
Attualmente, dopo svariate riforme e controriforme, dopo estenuanti
ricette sfornate negli anni dai vari governi,
dopo i continui tagli all’istruzione in nome di una spending-review
piovuta da effimeri obblighi imposti da una oligarchia tecnocratica al servizio
delle banche, la scuola ha ancora la potenzialità di sfornare cultura e
sicurezza del domani ai suoi studenti?
Non voglio girarci intorno ma, parliamoci chiaro, "spesso" i migliori studenti
italiani non sono il frutto di un percorso scolastico ben studiato e
pianificato, ma occasionali esempi di persone cui madre natura ha regalato una
capacità cognitiva ben al di sopra della media (è un dono legato al loro DNA).
E così, come esistono studenti modelli esistono anche insegnanti modello. Il
problema è che queste eccellenze sono troppo poche rispetto alle reali
necessità che una nazione come la
nostra dovrebbe avere per competere in questo mondo.
In questa nostra Italia un giovane laureato non è attratto dalla
carriera di insegnante (se proprio non c'è portato) ma partecipa al concorso
perché è l'occasione per avere un lavoro "sicuro" piuttosto che una
vita professionale incerta e allora, se riesce, preferisce fare il professore
di matematica o di ragioneria o di italiano in una scuola media secondaria
piuttosto che l'ingegnere o il commercialista o l’avvocato (dico tanto per dire
alcune professioni) per i cui titoli di laurea ha sacrificato uno spicchio
consistente della propria vita. Il neo insegnante parte quindi dalla
convinzione che non era questo il futuro
che immaginava e allora, quando viene a mancare la giusta motivazione, ne
risente la sua resa. Magari è veramente preparato nella sua materia, ma non
sempre la bravura fa rima con insegnamento (che è altra cosa). Si parte
pertanto con il piede sbagliato, manca la passione per il proprio mestiere e si
tira avanti con questo appiattimento mentale che si riflette, inevitabilmente,
sul suo operato influenzando, quindi, la crescita culturale dei suoi studenti
che si ritroveranno, di conseguenza, a dover affrontare il loro percorso con un
bagaglio culturale fornito in maniera piatta e asettica.
Ed è qui che subentra il DNA di ciascun studente (i pochi, quelli
baciati da madre natura, responsabilmente, curano la loro preparazione pensando
al domani e cercano di arricchire e approfondire ciò che la scuola offre, i
tanti affrontano il cammino quasi con rassegnazione pensando che la loro è
soltanto una parentesi della vita che "devono" obbligatoriamente
subire). È un circolo vizioso e allora cresce il desiderio di
"fuggire" da questa nazione nella speranza di trovare all'estero
quello che questo Paese non è in grado di dare: la speranza di un futuro.
Se desideriamo cambiare questo stato di cose, partiamo allora
dalle fondamenta, la cultura non si inventa a colpi di riforme e
spending-review ma la si raggiunge per gradi, con strumenti adeguati. La scuola
è il motore di un Paese ed è su di essa che devono concentrarsi gli sforzi.
Riappropriamoci delle nostre radici, del nostro glorioso passato ricco di
personaggi che hanno fatto la storia stessa del mondo umanistico e scientifico,
partiamo da lì, e allora: si riconsideri il ruolo degli insegnanti, si diano
loro i mezzi, non solo economici, per poter operare con tutta tranquillità, si crei
per i nostri studenti un terreno fecondo di interessi per stimolare il loro
impegno, si avvicini la scuola direttamente al mondo che opera, si stipulino
convenzioni con i vari soggetti del mondo lavorativo, si facilitino forme di tirocini presso le varie aziende o istituzioni,
pubbliche e private già dalle medie superiori, si potenzi l’apprendimento delle
lingue con stage all’estero e, viceversa, già dalle scuole elementari, si
mettano tutte le famiglie, non solo quelle agiate, nella condizione di poter
sopportare economicamente il peso di questo lungo cammino
formativo e allora si che potremo sperare in una società generosa e attenta che
non lascia partire più i propri figli ma li coccola e li mette in condizione di
poter scegliere, liberamente e senza paura di sbagliare, il proprio futuro.
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